Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
 
  

L’emigrazione dal Friuli Venezia Giulia in Belgio

L’emigrazione friulana in Belgio non ha mai attirato l’interesse degli studiosi friulani di storia patria. L’unico studio rilevante resta l’inchiesta del 1980 guidata da Guglielmo Pitzalis a proposito dei rientrati nelle valli del Natisone e delle malattie polmonari, della silicosi soprattutto. Inutile qui riesaminare le cause di un tale ritardo, più importante progettare nuove linee di indagine, cercare di capire per esempio come viva oggi l’importante minoranza italiana nell’area di Charleroi.

Emigrazione controllata dagli Stati e libera emigrazione, integrazione sociale e lavoro nei pozzi minerari, sentimento nazionale e abito sostanzialmente cosmopolita sono – a nostro avviso - i problemi da affrontare. I modi del reclutamento, le clausole contrattuali, la durezza del lavoro, i rischi di vita dei nostri emigrati sono già noti almeno nelle grandi linee. E’ necessario ricostruire la vita dell’emigrato nel suo insieme e per un tratto di tempo più lungo degli anni di miniera. Le motivazioni per cui molti sono restati nel paese ospitante non sono solo economiche, i flussi da e per l’Italia non sono completamente esauriti. Una simile prospettiva richiede un approccio non vincolato alle appartenenze regionali o nazionali, bensì coerente alla necessità di essere al contempo cosmopoliti, europei, italiani e friulani per non riproporre la (pur nobile) lapide ai caduti di Marcinelle dove una provincia italiana ricorda i suoi caduti, per inseguire con interesse tutti i matrimoni misti e capire i sentimenti delle recenti generazioni. In sostanza questionari e storie di vita devono muoversi tanto in Belgio come in Italia per ascoltare i racconti circa permanenze e ritorni, circa memoria del dopoguerra e ragioni delle scelte successive. Un’eccessiva attenzione identitaria rischia – come è successo – di chiudere piuttosto che aprire gli orizzonti, mentre la comparazione sistematica dei gruppi migranti, delle loro nostalgie e attese potrebbe dar meglio ragione della complessità dei movimenti migratori.

1. Muratori e minatori: l’emigrazione nel primo dopoguerra

Per il Belgio la fine della prima guerra mondiale apre una nuova fase migratoria. La ricostruzione del paese richiede numerosa mano d’opera. I sopravvissuti alla guerra, bene organizzati in sindacati (soprattutto in Vallonia), rifiutano i lavori più pericolosi, pesanti o mal pagati. Le miniere sotterranee di carbone, i cantieri edili e le cave di pietra e di marmo, per esempio, incontrano molte difficoltà a trovare mano d’opera locale. Le autorità belghe, quindi, ricorrono sistematicamente al reclutamento di operai stranieri. Gli italiani, soprattutto quelli provenienti dalle regioni settentrionali, rispondono solerti al richiamo. Nei primi anni della decade del Venti arrivano in Belgio circa 20.000 italiani: la comunità, che nel 1910 non raggiungeva le 4.500 persone, passa, nell’agosto del 1924, a 23.000 circa. L’aumento quantitativo dei flussi migratori italiani è contraddistinto da una diversa modalità migratoria. In effetti, mentre per lungo tempo gli espatri dall’Italia in Belgio avevano avuto prevalente carattere di iniziativa individuale, nel primo dopoguerra le autorità italiane e belghe cercano di organizzare le partenze. I datori di lavoro belgi fanno pervenire, in genere tramite l’Opera Bonomelli che aveva sedi a Bruxelles e a Milano, i moduli di ingaggio agli uffici italiani di emigrazione. Anche l’Ufficio Provinciale del Lavoro di Udine, sorto nel 1908, svolge un’attiva campagna di collocamento di mano d’opera all’estero. Nel 1923, in occasione della pubblicazione dell’opuscolo su L’attività svolta negli anni 1922-1923 fino alla soppressione dell’Ufficio (30 giugno 1923), l’Ufficio Provinciale del Lavoro segnala che “il mercato di lavoro più ambito fu per tutto l’anno [1922] la Francia e in sott’ordine il Belgio.

Francesco Micelli


            

Data pubblicazione 29/10/2013 16:10:00